C’è una collina, a ridosso di Battipaglia, che per decenni ha vegliato silenziosa sulla città. Verde, fitta, viva. Un tempo patrimonio naturale e visivo della Piana del Sele, oggi si presenta spoglia, aggredita, consumata. Le cave l’hanno morsa a lungo, e continuano a farlo. Di quel paesaggio dolce restano ormai solo strappi, ferite aperte nella terra.
Non è più il verde a dominare, ma il colore pallido e impietoso dei materiali calcarei, scavati e trasportati via per alimentare l’industria delle costruzioni. Uno scenario lunare, che stride con la narrazione contemporanea della tutela ambientale, del paesaggio, della bellezza.
E appena più in basso, come se cercasse ancora di resistere, c’è il Castelluccio. Simbolo storico e identitario di Battipaglia, recentemente restituito alla comunità dalla famiglia Santese, che ha deciso di investire nel recupero e nella valorizzazione del sito. Un gesto nobile, un atto di amore verso il territorio. Ma perfino il Castello, oggi, sembra perdersi. Svanisce alla vista, confuso nel brullo delle cave che avanzano.
Non si vogliono lanciare accuse. Ma le domande si moltiplicano, legittime, condivise da tanti cittadini. È davvero necessario continuare così? In un’epoca in cui la difesa del suolo, della salute e del paesaggio dovrebbero essere priorità assolute, è pensabile che simili attività siano ancora autorizzate e operative?
Non è solo una questione estetica. Le polveri sottili sollevate dagli scavi entrano nelle case, si depositano nei polmoni, compromettono la qualità dell’aria e, con essa, la salute. I rumori incessanti, il traffico dei mezzi pesanti, la trasformazione profonda del territorio: tutto ciò ha un costo umano, ecologico, emotivo.
Quella collina non è solo terra. È memoria, identità, orizzonte. Lasciarla scomparire senza opporre resistenza significa accettare una perdita irreversibile. Oggi più che mai serve una riflessione collettiva. Serve il coraggio di chiedere, di discutere, di immaginare un’alternativa. Perché il progresso non può avere come prezzo la scomparsa della bellezza. E perché certe ferite, una volta aperte, non si rimarginano più.